Il buono dell’olio
Proprio come una fede. Le sfumature della dieta mediterranea “made in Monopoli” sono infinite come quelle di una tavolozza di un artista. Puoi crederci o no ma alla fine tutti sono d’accordo sui benefici effetti del grasso principe di questo angolo di mondo, l’olio extravergine da olive, l’anticolesterolo per eccellenza, immancabile a tavola se prodotto dalle splendide campagne olivate di questo scorcio di Puglia.
Se ne può discutere, concordare o contraddire per ore e ore. Ma alla fine dritto o storto davanti a un bicchiere di vino ci si trova sempre d’accordo. E non è un caso che proprio uno dei più grandi scrittori dell’antichità di vino e olio, abitava nel borgo dei pescatori. Si tratta di Prospero Rendella (1553?-1630) giureconsulto autore, tra le altre opere, dei due trattati “De vinea…” e “De olea…”. Ha raccontato già a quei tempi, di due prodotti cardine della dieta mediterranea. Il vino viene prodotto oggi per il consumo familiare. L’olio da olive è invece prodotto in grande quantità ed è ancora una risorsa del territorio (la principale cultivar autoctona è la “Simona”). La sua tradizione proviene dalla miriade di masserie della campagna dove è fiorita una grande cucina legata ai prodotti della terra.
Un mare di gusto
L’altra faccia della gastronomia è invece affidata alle mani delle mogli dei pescatori ed è un ricettario tramandato da madre in figlia. Fritto di paranza, brodetto di scorfano, o l’impronunciabile “meròsche” (m’rrosc) che potremmo italianizzare in mirrosca. Si tratta di quella minutaglia di pesci e crostacei di avanzo sul peschereccio e senza mercato perché per taglia o per qualità non è gradita al consumatore. E che invece è la vera prelibatezza, quella che non compra nessuno ma diventa il piatto principe del pescatore. La zuppa di pesce per eccellenza. Un tuttuno di apoteosi del gusto che deriva da così tanta biodiversità. Metafora del mondo, dove la “meròsche” in dialetto locale è anche sinonimo di ammucchiata, pastrocchio. E se il piatto è arreghēnète (letteralmente origanato) allora è uno stufato di bietole, cozze, patate, alici, che possono essere mollicate con doratura croccante in cottura perché un piatto arraganato è sinonimo di gratinato. Terra e mare, dunque elaborati sia dalla cucina tradizionale familiare che dalla cucina della ristorazione. Queste le quattro sfaccettature della gastronomia monopolitana che vanta un’antica tradizione tramandata dalle osterie che oggi resistono al fianco di moderni ristoranti sempre attenti, anch’essi, alla tradizione.
Ma senti che ragù
La cucina monopolitana è anche figlia dei monzù napoletani. Basti pensare al ragù (ragoût) di sette carni. È figlia della cucina pugliese (incapriata di fave e cicorie) e della storia del posto (le orecchiette qui sono minghièridd), delle invasioni di bizantini (qui portarono ulivo e tecnica della scapece), arabi (cartellate ossia le shepakià), francesi (lo sfilatino non è forse una baguette?) e spagnoli (piatti “alla catalana”). E sono gli spagnoli nel 1600 a portare qui il riso che con le patate diventa il piatto principe dei poveri e con l’arrivo dei Borboni a Napoli (1734-1861) il piatto si arricchisce della presenza del sapore del “pesce” con l’aggiunta delle cozze. Spopola nella vicina Bari dove il “risopatateecozze” si chiama semplicemente “tiella” (tegame). E la commistione fra mare e terra ci riporta alla magia di questo territorio a metà tra terreni coltivati e spiagge, di contadini pescatori e poeti in cucina con un piatto che ha una sola variante terra, quando i carciofi soppiantano le cozze. “Risopatateecozze” è il piatto che mette tutti d’accordo e che racchiude il mistero ancora a lungo discusso se vi debbano essere o no anche le zucchine nella ricetta di questa sorta di paella nostrana.
Cucina ricca di storica povertà
È figlia della poca ricchezza e della tanta povertà di un tempo ormai perduto. La cucina è figlia della necessità di sopravvivere e di conservare a lungo gli alimenti, soprattutto durante gli assedi (zucchine allo scapece localmente dette “alla poverella”). È figlia della fede (il baccalà quaresimale si diffuse fin dal ‘500), dei tanti monasteri che hanno custodito per lungo tempo le ricette delle paste secche (dolci di mandorle), peccati di gola inconfessabili e che gli sposi regalano sempre agli invitati al termine della festa di matrimonio. La cucina monopolitana è anche figlia di una cucina in cui lo chef è il mare o la terra. Il fantastico mondo delle crudità. Come piselli, fave, finocchi, cicoria catalogna (puntarelle), cetrioli o il prezioso barattiero, un meloncino immaturo (peponide) irrigato con acqua salmastra e qui consumato fresco secondo un’antica tradizione salentina. Accompagnano sempre le pietanze fra il primo e il secondo come si usa in Grecia. E per essere conservati più a lungo le crudità diventano sottoli, come carciofi, lampascioni, melanzane, pomodori essiccati. E nella cialledda, la cosiddetta “colazione del mietitore”, incrocerai cipolla, pomodoro, carosello o barattiere, origano e pane raffermo. Niente fuoco e tanta freschezza da gustare soprattutto in estate. E poi ci sono le crudità di mare. Il sushi monopolitano. Sono aperitivo o secondo piatto, liberi di gradire. Sono le tagliatelle qui intese come seppie crude tagliate a striscette e condite con olio e limone, polpi, cozze e il principe di tutte le crudità, sua maestà il riccio di mare, come sempre da mangiare nei mesi con la “r”. Al ristorante, come a casa o con un po’ di mollica di pane al posto delle posate, semplicemente sugli scogli, guardando l’orizzonte, per saziarsi di così tanta bontà e bellezza insieme. Anche la pizza è servita. Le sue origini sono nella ex capitale borbonica, Napoli. E infatti qui è arrivata dopo il pugliesissimo panzerotto, una sorta di “pizza fritta”, ossia il disco di pasta lievitata e chiuso come un “calzone” e passato in olio bollente. Ma può anche essere inteso al forno e qui anche interpretato farcito come un panino, con locali polpette o zucchina alla poverella (allo scapece). Perché il gusto non è da meno agli altri sensi.